
Per un po'
non ci sarò.
Tornerò.
Vederti.
Occhi spenti che tendono lo sgUardo verso di me facendosi strada tra ciocche
aRanciatAgrunge e un cappuccio-velO demodè, effervescente aspiri_na.
bOlli_Cine.
Scendi dal cielO?
[Ohhhhh stUp(R)ore delle mie cornee].
Ti coprono vesti lacere e spOrche, ma dove sei stata?
Sei famosa, lo sai?
Ti vendono.
Vendono la tua immagine.
Mi accarezzi creatura, come se nulla (f)Osse, con la tua mano gelida e ossuta e vedo le tue unghie laccate imPerfette rouge, mangiate e ti mordi le pellicine delle dita, come me!
Ti siedi vicina, sì, certO, ho da accendere.
cOn stupore, non sono stupita.
[lunghe bOccate di Ossi_nIcotina e silenzi. Mi fissi. Ti fisso.]
Ti và se lecchiamo un po’ di questi francObOlli coulor_mulTi e spediamo un po’ di cartO_line all’infernO?
Il tuO sorriso è fluO, saranno tutte queste stelle luminose che albeggiano in lontananza, Arti_ficI_Ali dolcificano acide note.
[iO e te sull’asfalto, ascoltando BleW, arie sconvenientemente sconvolte].
Partiamo dall’inizio, ti offrirei un sorso di qualche cosa di forte, ma la mia gola ha già assorbito tutto il contenuto della bottiglia.
Ti guardo attraverso il vetro dell’etanolico flacOne socchiudendo un occhio.
Torni subito?
E dove vai?
Torni?
Mi lasci in pegno la tua Aure_Ola, splendida e cangiante, addobba ora la mia criniera con quei barlumi grEEnbOttle.
wOw, mi sento Ora, sono frastornata da riflessi e gli occhi percepiscono sOlo saturazini.
Ed eccoti tornata in fretta, uno zaino marrone di iuta colmo di bOttiglie.
AlcOl dal paradisO, mi propOni.
Mentre la tua contrO_figurA se ne stà su altari e alla destra o sinistra del GrandecApo, tu tracanni nel sottoscala litri di pOziOni esilaranti.
Mi racconti il tuO (dis)AgiO, ti annoi a stare appesa come effige su muri e in ciondolini.
Sempre meglio che stare in croce no? Ti sussurro e ridiamo sgUaiatamente, fino alle lacrime.
[Divertiamoci, ti prego.
Non pregare te ne prego, mi preghi].
Al avariare del tempo, le nostre occhiaie sono aurOre boreali.
Indossi delle calze bucate ora e una veste_sotto lucida, bucherellata dai pensieri, scarpe basse sfasciate da fango e pioggia, scusami, non avevo di meglio.
Ti piaci così?
Ho la pelledoca ogni volta che mi (S)fiori, inebria il tuo Odore di paPa_VerO, mentre me ne disegni uno sulla Pelle, indelebile, ronzante, Orfo-morfeico, sul mio rigido profilo toracico.
Appoggio la mia testa sulle tue ginocchia, voglio le ver(TI)gini dellO spirito etilico, ti fisso le Pup(s)pille interminabilmente, pOi abbasso le ciglia e sOspiro.
Sento le tue labbra morbide sulle mie.
Rosso fuoco le guance, limono con una sacra icOna sacra.
[A_men.]
Ci diamo la manO e saltiamO in questo vuOto più e più vOlte.
sOspirandO.
Non ti troverò al miO risVeglio e per questo non vorrei dormire mai più.
E’ scaduto il nostrO tempO.
Fanculo al Sole, alla Luce.
[Gemiti].
Lenta Dose_Over tra le tue braccia.
Oh Ma_Donna.
Odio essere una bambolina.
Mi spazzoli i capelli please?
Non farmi indossare quell’abito, te ne prego.
Ho bisogno d’aria più che di altro.
Il molto e il troppo e l’immobilità.
Carica, gira la manovella, iO danzerò per te, i piedi sono inchiodati a questo carrilon e mi specchio continuamente ad ogni giravolata…in divenire.
Accarezzami le punte delle dita,
giungo qui da anni e anni di disastri ecologici,
il petrolio ha sporcato il rosa del mio tu_tù.
Mi fa male tu_tto e non mi tocca niente.
Sapore.
Che sapore ha un essere umano medio?
Indescrivibile è l’attimo.
Non odono le mie retine, parlami con le mani, per favore.
Oppure ti prego…ti scongiuro, mi metto in ginocchio e te lo chiedo in lacrime…ignorami.
Ignorami completamente, perché ci sono cascate che sfidano le forze fisiche e l’acqua defluisce alla fonte, non si lancia nel mare.
Immissari ed estuari….
Quanti termini per poterti fare impazzire….
Consapevole dell’incosistente inconsapevolezza.
Ho una dipendenza malata.
Mi metto sul tavolo e con una tessera spezzetto in polvere le lettere ABCDEFGHKLS)éXJSOXPX fini fini….allineo una riga lunga chilometri e aspiro.
Le sento salire a velocità indiscrivibili, scorrere sulla tua barba pungente oh Benjamin Franklin…avresti mai saputo inventare quest’oblio?
Triste e appassita.
Amo essere una bambolina.
Con pizzi e merletti, sguardo ceramica da sopra la mensola…..
ti fisso.
Mi spazzoli i capelli please?
Se poi con il tuo pettine ce la fai…sciogli questi nodi caparbi, quelli che mi bloccano lo stomaco e la gola.
Usa i fasci nervosi che trovi lassù e tessi per me un vestito tuttopizzi e vaporoso, un po’di rosso e un po’di grigio…iO canterò per te.
Ti canterò le gesta di eroine senza eroi,
di spadaccini trafitti da aghi e di maghi.
Quelli che dal cilindro estraggono bianconigli,
“No…non sono maghi quelli” mi fai notare
…sono presti_giA_tori.
In un angolo attendo l’ABRACADABRA della fata,
che mi liberi dal drago,
che mi trasformi in d_iO.
Qualcosa detta e noi abbiamo scritto...
Ho lo stomaco vuoto.
Seguo con le dita le gocce di pioggia sul vetro, non metto a fuoco il paesaggio là fuori, solo le gocce, solo il vetro, diaframma 3,5f.
Scivoliamo solamente come esseri fluidi, come gocce contro i vetri delle nostre esistenza.
Mi piace sentire i pesci che nuotano nelle mie vene, seguono il flusso, arrivano alle foci dei capillari, alcuni a branchi si dirigono verso gli alveoli, altri vogliono ristagnare nei miei ventricoli, i più deliranti invece raggiungono il mare grigio, schivano come fossero coralli le mie sinapsi e poi, scossi dall’elettricità, si lanciano a capofitto giù per la cascata vertebrale.
E’ una di quelle idee-aborto pensare di annegare dei pesci?
Ho desideri fetali.
Vorrei riprovare quel piacere di crearmi lentamente in un posto caldo e sicuro, utero, oh utero….
Il mio olfatto ancora sottosviluppato non ha memorizzato l’odore delle viscere di mia madre, nove mesi e nessun ricordo conscio, vellutata e morbida la cervice e il collo della mia uterina visione.
Lascio sdraiarsi l’inconscio sulle rive dello Stige, in attesa di un Caronte, che sembra più un clown che un essere mitologico:
- Traghettami nell’Ade, ti pagherò con un obolo, però prima, togliti quel sorrisetto del cazzo dalla faccia.
Emergono boccheggianti da queste acque infernali, con un volto cianotico, i retaggi di una cultura classica.
Mi sta lacerando in sottili fettine la noia morale Nessun principio è rimasto radicato nella mia pesante anima, lassativi per disidratarla e raggi ustionanti, la voglio vuota, la voglio senza princIpi né prIncipi.
Ora mi diverto ad assumere le lastre per accertarmi della mia esistenza.
Nelle mie fiabe le strutture neuroepiteliali che si appoggiano sul dorso molliccio, freddo e umido di un ROSPO generano solo fenomeni allucinatori, diventi consapevole di ogni minima cavità del tuo corpo, senti la corsa precipitosa dei globuli e il fiatone dei neurotrasmettitori che diretti al centro del vomito vogliono svuotarti, voglio saliva su un rospo blu.
Ho bisogno di toccare la realtà, mi accascio sul pavimento gelido e verdognolo di questo bagno.
Non controllo nessuno stimolo, il calore e il bagnato lasciano tracce non solo nelle mutandine, sono ancora in vita e mi disidrato lentamente.
Sono, un’ombra, una sensazione piacevole o tagliente, sono la macchia di sangue della verginità che ha tinto le lenzuola bianche nella calura di un’estate ormai troppo lontana.
Mi nutro di occhi che non riesco a guardare mai per un tempo troppo lungo, temo di essere scoperta e rimanere nuda, verme in un Eden suburbano, un serpente, una mela, Eva ed un esilio.
Racconta qualche cosa alla mia colonna, raccontala con le dita, con l’indice, lentamente e scandendo bene ogni parola.
Vorrei sussurrartelo piano, ma non oso chiedertelo:
Vuoi vedere le mie interiora?
Le guardo da sola, che spettacolo, sollecita la mia commozione salata
La codardia può essere il tuo miglior pregio se tu sei me.
Provo dei brividi a pensare a quei segni rossi sul mio liscio sedere di neonato e alla urla nel espirare la prima volta l’ossigeno, poi borotalco.
Tendo all’infinito.
Ceniamo con una serie di proverbi e frasi, citazioni e suoni, quelli che non significano nulla e che ti porti dentro, non puoi ignorare il nonsenso di ciò, quindi semiotica, semantica, sinonimi, contrari, dai, forza, arrampicati su questa superficie liscia e daglielo tu un significato, dammi un senso.
Girati e conta fino a centotré, io mi nascondo dietro le mie parole e mi rannicchio sotto i silenzi, se vuoi, poi…… cercami, sezionami per un istante con il tuo bisturi.
Insegnami il tuo niente che io ti insegno il mio.
[potrebbe essere finito]
Sempre iO e Alice
POLVERE NERA.
Sono sdraiata per terra e sento il terreno umido a contatto con la mia pelle bianca.
Con i suoi passi nervosi una formica conta le vertebre della mia rachide, trentatré, trentaquattro, dentro un midollo di ricordi scorre fino al polo Nord del mio essere.
“Dica trentatré, espiri. Dica trentatré, inspiri”.
Ho un’atonia che mi impedisce di rialzarmi, sono stordita dal dolore lancinante che mi trapassa e non odo nessun suono, dopo il frastuono solo fischi e nulla ed un sole, o forse due, tristi, pallidi, infilati in un cappotto di grigie nubi, per difendersi dall’aria che pizzica: è ottobre.
E’ stato un temporale di polvere nera, deflagrazioni supersoniche, un lampo e un tuono.
La mia guancia è fango, gli occhi incrostati sono volti ad annusare le impronte di stivali pesanti e morte.
Vedo il passato, vedo un 29 gennaio gelido, ma mai come lo sarebbe stato nello scoprire il tuo volto bluastro, il tuo corpo inerme e la tua espressione rilassata.
Me la sono presa con il nemico, con le armi, con la guerra, con dio, con me stessa, con la morte e con te, perché mi hai lasciato qui, sola, senza salutarmi, senza darmi un bacio, senza una carezza, senza sussurrarmi all’orecchio con la tua voce calma e rassicurante “Addio, mon amour”.
Sei partito per sempre da solo, senza valigie e senza di me.
Non so se sono svenuta, se sono tornata davvero indietro nel tempo, sento le tue dita lunghe che mi accarezzano il ventre e le tue labbra calde che mi disegnano aureole sulla fronte, galleggio fluidamente nel tuo sguardo, forse era allora che la morte per la prima volta ci aveva osservati invidiosa.
Non c’è un giudeo in croce, ma c’è filo spinato arrugginito in lontananza e tutto inizia ad appannarsi, come i vetri al calore della stufa...mi manca quel calore.
Una brutta sensazione mi pervade e di riflesso mi accascio da supina sul lato destro del mio corpo, appoggiando le labbra alla fredda e denutrita terra, così intrisa di sangue da essere ormai infeconda.
Lascio defluire l’eccesso di saliva che mi riempie la bocca, sento delle lacrime uscire dagli occhi ad ogni conato e il diaframma contorcendosi crea spasmi, cerco un sinonimo per descrivere a me stessa il dolore, nel frattempo vomito bile.
La mia veste è intrisa della rugiada vermiglia che mi scorre nelle vene, mi permette di vivere, ora fuoriesce copiosa da un foro che pulsa ad ogni pensiero e che interrompe ricordi e respiri, sempre più frequentemente.
Brucia.
I soli si spostano piano in questo mattino di ottobrina agonia, vogliono raggiungere il centro del cielo prima dei dodici rintocchi.
Sento.
Non sento.
Riesco a torcere il braccio e strappare un lembo di camicetta per fasciarmi la spalla ferita, vorrei lasciarmi morire, ma non ci riesco.
Sono stanca sai?
Sono sanca, stremata, sfatta, distrutta.
Sono oppressa da questa situazione surreale, il suono delle campane non scandisce più il tempo: solo la morte.
Sono lunghi ed elettrici i silenzi, è palpabile la tensione e la paura ad ogni temporale di zolfo.
Chi sarà il prossimo?
Mi hanno ammaestrata a pregare con le mani giunte e le ginocchia a terra, ad invocare la pietà dei santi, della Vergine Maria e del Cristo in Croce, nessun Dio ci salverà, nessun Dio riuscirà a ristabilire l’umanità di noialtri esseri inumani, è solo la speranze quella che anima le mani nodose delle vecchie inginocchiate a snocciolare grani di rosari, non certo la fede, chi ha più fede?
E’ solo abitudine e speranza.
Vorrei gridare ora mentre con i denti stringo il brandello di stoffa bianca attorno ala ferita pulsante, rimane soffocata la voce, ho ancora una voce?
Vomito.
L’acido mi brucia la gola, mi distrae per piccoli attimi, poi la vita si offusca di nuovo.
Sto iniziando a camminare verso di te, lo sento, perché ho freddo, perché sono in un bagno di sangue, sudore e lacrime.
Morirò qui, sotto i castagni che si tolgono la loro veste ingiallita al suono del vento autunnale.
Non esiste una rivoluzione fatta solo a parole.
Serve sangue, serve azione, serve polvere nera, serve il fucile, servono gli sguardi vitrei, servono le fosse piene di corpi, servono lacrime, servono generazioni di orfani e vedove. Serve tutto questo davvero?
Hai perso la vita ancora prima di averne una tua veramente, io ho perso te, poi ho perso me, ti ho sepolto in una cassa lignea.
Non ho versato lacrime, perché era il 29 gennaio, perché era freddo, sotto zero e i miei occhi erano ghiacciati, il mio cuore immobile sotto formalina.
Da quanto sono sdraiata qui? Non lo so.
La luce aumenta, ma nonostante ciò scorgo spazi di mondo sempre più limitati, vago tra passato e presente, immaginando un futuro che non avrò mai.
Mi distrae un'ombra, un suono, passi corrono e mi si avvicinano, non ho la vista limpida, solo sagome sfuocate.
Sagome in divisa.
Suoni ovattati.
Parlano e non capisco.
Sono loro.
Uno si accuccia e mi fissa negli occhi:
-Stirb! Verrater!- E mi sputa in faccia.
Non so che significhi quella frase, nulla di dolce, niente possa consolare un agonizzante, niente che mi faccia sentire meno sola con la morte.
Si alza e imbraccia il fucile.
Punta.
Non ho paura, il mio respiro è tranquillo.
Mira.
Non riesco a distogliere lo sguardo dall'arma lucida e corvina.
Fuoco.